L’evemerismo è una delle più antiche teorie sull’interpretazione del mito. Sviluppato da Evémero de Messina (IV secolo a.C.), sostiene la natura storica e sociale dei miti, con divinità che rappresentano personaggi storici le cui gesta sono state dimenticate o sfigurate dal passare del tempo.
L’evemerismo è una posizione della filosofia della religione che sostiene che gli dei rappresentino soggetti umani divinizzati, attraverso processi di trasformazione e di ricezione di eventi reali attraverso le strade della tradizione orale che ne ha tramandato la memoria e modificato i contenuti.
Definizione di evemerismo
L’evemerismo è una teoria ermeneutica dell’interpretazione del mito. Si allontana dalle linee filosofiche, religiose e psicologiche con cui siamo soliti analizzarli. In questo caso, avvantaggia soprattutto lo storicismo.
Secondo l’evemerismo i fatti mitologici nascono da eventi e personaggi reali. La trasmissione esagerata e adulterata di tali storie ha portato alla sua forma attuale, un gesto che, d’altra parte, merita anche un’analisi. Che interesse c’è in questa esaltazione delle gesta e degli eroi? Risponde a interessi politici o è un processo sociale?
In ogni caso, l’evemerismo ha avuto solidi rappresentanti nel corso dei secoli, soprattutto nei periodi classico e neoclassico, più legati, il primo per prossimità temporale e il secondo per poetica, al mito e alla sua influenza sulla società e sulle arti.
Evemero di Messene e la ‘Sacra Iscrizione’
L’evemerismo è attribuito a Evemero di Messene, mitografo greco della corte di Cassandro, re di Macedonia. La sua nascita e origine non sono chiare, con fonti che si contraddicono a vicenda. Naturalmente tutti sono concordi nell’attribuirgli la paternità della Sacra Iscrizione (Ἱερὰ ἀναγραφή), l’opera più rilevante di un gruppo di cui sopravvivono solo accenni e citazioni. Anche le traduzioni successive, come quella di Ennio, scomparvero.
Il merito di Evémero, poiché già altri autori precedenti avevano difeso il mito come “storia mascherata”, è quello di elaborare una teoria applicabile ai miti, una sistematizzazione di cui purtroppo disponiamo di pochi dati.
L’atteggiamento filosofico prende il nome dal suo assertore, Evemero da Messina, storico e filosofo di età ellenistica.
In realtà un’attitudine simile non era una novità nella cultura greca, trovandosene espressione già nel pensiero di Senofane, Erodoto, Ecateo di Mileto, Eforo di Cuma. Erodoto, tra gli altri, presenta resoconti “razionalizzati” del mito di Io e di eventi della guerra di Troia, mentre il suo predecessore Ecateo, nelle Genealogie, si era soffermato su episodi del mito quali quello di Eracle e Cerbero, cercando di razionalizzarli alla luce del buon senso.
La trattazione più completa di questo tipo di filosofia si riscontra, tuttavia, nell’eponimo della teoria, ossia Evemero da Messina, vissuto nel periodo di transizione seguito alla morte di Alessandro Magno, al seguito di Cassandro, nuovo sovrano del Regno di Macedonia, per il quale svolse mansioni militari e diplomatiche: secondo la tradizione, Cassandro lo incaricò di effettuare dei viaggi di esplorazione nella zona del Golfo Persico, partendo dalla Penisola arabica. Il viaggio dovette collocarsi senz’altro prima del 297 a.C. (data della morte di Cassandro) e da esso Evemero trasse spunto per comporre un’opera dedicata al sovrano macedone.
L’opera di Evemero, la Ἱερὰ ἀναγραφή (Hierà anagraphé, “sacro resoconto” o “sacra scrittura”), si inserisce in un filone letterario a lui contemporaneo, in cui storiografia, etnografia e opportunismo politico erano commisti a scapito del rigore intellettuale che aveva generalmente caratterizzato la storiografia del secolo precedente.
L’opera non ci è giunta intera, ma grazie al compendio in Diodoro Siculo e ai numerosi frammenti della traduzione di Quinto Ennio intitolata Euhemerus, abbiamo un’idea complessivamente adeguata del contenuto di questo scritto, probabilmente diviso in tre libri, corrispondenti alla descrizione geografica (I), politica (II), teologica (III) di un arcipelago dell’Oceano Indiano visitato dall’autore a seguito di una tempesta che lo aveva portato fuori rotta.
Nel primo libro, l’isola principale di tale arcipelago, chiamata Panchea (Παγχαία), è descritta come una terra sacra ricca di alberi di incenso e altre essenze vegetali adatte ai sacrifici ed ai riti religiosi. Su di essa non vivevano solo indigeni, ma anche immigrati di provenienza orientale, come Oceaniti e Indiani, nonché Sciti e Cretesi, popoli di grande saggezza: essi abitavano nella capitale, Panara, dotata di leggi proprie e retta da tre magistrati annuali, che si occupavano della giustizia ordinaria coadiuvati dai sacerdoti. A dieci chilometri da Panara, in una pianura, era stato eretto il tempio di Zeus Trifilio, ossia delle tre tribù primitive dell’isola, i Panchei, gli Oceaniti e i Doi. La zona del tempio era ricchissima di flora e fauna, così come notevole era il tempio, lungo 60 metri, al quale si accedeva tramite un viale lungo 720 metri e largo 30. Dominava la piana il monte Olimpo Trifilio, sede dei primi abitatori dell’isola e di osservatori astronomici naturali.
Evemero doveva poi dedicare il secondo libro alla descrizione della costituzione e della società di Panchea. La società era tripartita: alla prima “casta”, quella dei sacerdoti, spettava la direzione degli affari pubblici e delle controversie giuridiche. La seconda “casta”, degli agricoltori, si occupava della lavorazione della terra e dell’immagazzinamento dei prodotti per l’uso comune: come incentivo al lavoro, i sacerdoti stilavano una classifica dei più meritevoli, il primo dei quali riceveva un premio. Ultima casta era quella dei soldati, che, stipendiati dallo Stato, proteggevano il paese, vivendo in accampamenti fissi e tenendo lontani i briganti che attaccassero gli agricoltori. Principale arma da guerra, come nella Grecia omerica, era il carro.
Il terzo libro, infine, svolgeva l’argomento da cui l’intera opera traeva il nome e lo scopo “politico”: la religione ideale dei Panchei. Ritornando alla descrizione del tempio di Zeus Trifilio, Evemero descriveva brevemente il culto tributato agli dèi dai Panchei e la struttura interna del tempio, nel quale era posta una stele d’oro che recava iscritte, in geroglifici, le imprese degli dèi che i sacerdoti cantano negli inni e nei riti divini.
Secondo la casta sacerdotale di Panchea, gli dèi erano nati a Creta ed erano stati condotti a Panchea dal grande re Zeus, di cui Evemero narrava la genealogia e le imprese. Dopo essersi dilungato ad esporre le complesse trame di potere che portarono Urano a divenire il primo re del mondo abitato e ad essere onorato per la sua conoscenza dell’astronomia come dio del cielo, Evemero riporta che dopo una guerra Crono, figlio minore di Urano, spodestò il legittimo erede, il fratello Titano, e, sposata Rea (Ops in Ennio), sua sorella, generò Zeus, Era e Poseidone.
Ultimo gran re fu appunto Zeus, figlio di Crono, che liberò fratelli e zii dalla prigionia in cui Crono li aveva costretti e, con diversi matrimoni, si assicurò una numerosa discendenza. Assicuratasi l’alleanza con Belo, re di Babilonia, Zeus conquistò poi la Siria e la Cilicia, nonché l’Egitto, dove ricevette il titolo onorifico di Ammone e con questo nome vi venne onorato sotto le spoglie di un ariete, poiché in battaglia indossava un elmo aureo ornato appunto da corna d’ariete.
Percorsa cinque volte la terra e beneficatala con i semi della civiltà e della religione, Zeus, in tarda età, prima di morire, condusse appunto a Panchea i suoi discendenti, ai quali lasciò compiti specifici di governo: suo fratello Poseidone governò i mari ed i percorsi marittimi, così come Ade si occupò dei riti funebri ed Ermes presiedette all’alfabetizzazione ed alla diffusione della cultura. Morto Zeus, che aveva fatto incidere su una stele d’oro le imprese sue e dei suoi avi, gli fu eretto un tempio, appunto di Zeus Trifilio, ed Ermes incise sulla stele le imprese dei suoi discendenti, che come lui sono onorati come dèi dagli uomini per le grandi imprese compiute.
La narrazione di Evemero, di forma romanzesco-storiografico-etnografica, risentiva, fondamentalmente, dal punto di vista letterario, delle opere mature e tarde di Platone (padre del mito di Atlantide), ed era presente nella storiografia alessandrina, ad esempio negli Indikà di Megastene. Reminiscenze siciliane collegano il toponimo Panara alla quasi omonima isola dell’arcipelago delle isole Eolie.